Un'appassionata nota dell'avvocato Dante Magnini - «C'erano i papaveri» - Il dono d'un quadro venduto per molti zeri - Il timore di avere peccato d'immodestia
A nome della Famiglia Perugina, l'avvocato Dante Magnini, ha scritto un
appassionato ricordo di Gerardo Dottori.
Ora che il lungo sodalizio si è infranto e m'è d'obbligo ricordarlo, non trovo
che una frase consunta: «perdendolo, Perugia si sente più piccola e spenta».
Però è vero: Gerardo Dottori le aveva trovato orizzonti nuovi e prospettive
diverse.
«Ma non l'ho inventati io - diceva, quasi a scusarsi - l'ho soltanto visti».
Il fatto è che era lui a vederli ed a farceli vedere.
Nei suoi ultimi tempi, pur se lucido ancora, trovava difficoltà a finire un
discorso che fosse lungo: d'improvviso si bloccava, sfuggendogli la parola
adatta. Non perdeva tuttavia l'arguzia.
«Occorrerebbe - mi disse, sorridendo - che dicessi sempre prima la parola che
viene dopo». Ma in fondo era proprio quanto nella sua lunghissima vita aveva
sempre fatto, dicendo per primo ciò che gli altri poi avrebbero ripetuto.
Sin da quando, agli albori del secolo, frequentava l'accademia - e la frequentò
con quella diligenza che lui metteva in tutto quanto faceva - ove l'imburravano
di copie e di stucchi. Un giorno uscì da solo con tavolozza e colori per i prati
vicini e dipinse quell'«Esplosione di rosso su verde» che ora è alla «Tate
Gallery» e precorre e intuisce la pittura moderna.
«Ma c'erano i papaveri» ricordava, quasi a non assumersi meriti.
Ed era vero che ci fossero, perché dopotutto, anzi soprattutto, la sua fu sempre
un'arte concreta, che non inventava, ma interpretava il mistero del mondo. Sia
pur vedendo appunto ciò che gli altri non sapevano.
Forse fu proprio questo suo senso del concreto che gli fece tanto amare la sua
terra. Vi si identificava in tutto: nella riservata mitezza, nella faticata
tenacia, nella struttura insieme solida e ariosa. In quelle forze ascensionali,
diremmo. Ed anche nella fedeltà.
Come artista scelse un suo ruolo e lo seguì, sviluppandolo. Senza curarsi di chi
insegue la moda e senza mai temere le critiche. Temette soltanto di non essere
sé stesso.
E fu Dottori.
Ma, poiché la sua arte rimane e l'uomo che sino a ieri ci illuminò s'è spento,
è questo che vogliamo qui ricordare.
Quell'uomo incomparabile nella sua serenità. Quell'uomo cosi umano. Quell'uomo
che capiva. E che - nella sua tollerante dolcezza - comprendeva tutto e tutti,
anche le tante debolezze e le meschinità.
Una volta lo trovai con un artigiano
al quale due giorni prima, richiesto, aveva regalato un quadro. Era venuto a
ringraziarlo ancora, anche a nome della moglie, che quel dipinto aveva appeso
nel tinello ed era tutto il giorno estasiata lì avanti. E non osava dirlo, ma
intanto lo diceva, aveva il desiderio d'averne in regalo un altro per appenderlo
nella camera da letto ed averlo così anche di notte vicino.
Gerardo ascoltava
con quel suo sorriso timido e buono. Sennonché suonò il telefono: era un
professionista che, per una cifra con molti zeri, aveva poco prima acquistato un
quadro, quel quadro, dall'artigiano e gliene chiedeva l'autenticità, anche,
perché gliene aveva promesso in vendita un altro.
Non si scompose, assicurò che
era autentico, ringraziò, riattaccò e tornò sorridente e cortese - come se
nulla fosse - dal postulante. Se mai confuso d'averlo involontariamente messo in
imbarazzo. Tanto più che forse già immaginava tutto, lui che era un puro, ma non
un ingenuo.
Non si scomponeva mai, come ogni saggio. E perché degli uomini non gli
interessavano i lati peggiori. Lui cercava altro. E poi conosceva il bisogno,
anche se lui era riuscito a mai degradarsi.
E, d'altro canto, ignorava invidia, presunzione, desiderio di feluche, sete di
danaro. Non gli importò mai che i milioni tardassero a giungere e che, quando
giunsero, gli ruotassero soltanto attorno. Non ebbe così mai né rimpianti, né
delusioni. E restò appunto limpidamente sereno.
Si riteneva anzi fortunato perché - dipingendo, affrescando, scrivendo,
insegnando, lavorando sodo, da operaio anche all'occorrenza - quantomeno la
minestra l'aveva sempre assicurata a sé ed ai fratelli; perché era riuscito a
dare corpo a quelle sue visioni; perché era riuscito a non tradirsi; perché la
sua città l'aveva spontaneamente capito; perché i suoi concittadini gli volevano
bene. Quasi che a un uomo così fosse possibile non volerne!
Perché senti quel suo amore per Perugia ricambiato da tutti, soprattutto dagli
umili, che s'identificavano nella sua umiltà. Quando dalla «Famiglia Perugina»
gli fu offerto il «Grifone d'onore » si commosse. «L'onore non lo merito - disse
- ma il grifone vorrei tenerlo». Ed arrossì, come spesso gli succedeva,
sembrandogli d'aver peccato d'immodestia.
Perché incredibilmente riuscì a mantenere - nell'arco di un secolo o quasi - un
intatto candore.
Forse è per questo che non invecchiava e, pur potendoci essere nonno,
continuavamo a sentirlo tanto vicino.
O forse per la sua inesausta gioia, di vivere, per la sua costante curiosità,
per la sua ininterrotta disponibilità.
Una delle ultime volte che lo vidi, quando le forze già lo lasciavano, d'un
tratto si chinò dalla poltrona verso il pavimento e disse: «Vorrei prendere quel
rosso». Il mondo, le cose, quanto aveva attorno, sin anche semplici mattonelle
appunto gli offrivano ancora motivi di gioia.
Più tardi - lui che dalle cose passava alle idee, lui che era intelligente e
buono - spontaneamente mi disse, quasi fosse tenuto a confortarmi, che non lo
turbava il trapasso. «Ma - aggiunse, con la sua limpida onestà - non ho fretta
di morire, tanto già so cosa vedrò di lassù».
Però non me lo spiegò, né io glielo chiesi per la consueta ipocrisia di
circostanza.
S'era rinchiuso in quei suoi lunghi silenzi, forse inseguendo - lui che con quei
suoi occhi singolarmente attoniti riusciva sempre a vedere in anticipo -
orizzonti ancora più vasti, prospettive ancora diverse, un mondo forse ancora
più luminoso. Ed una maggiore serenità.
Ma penso che sia impossibile trovarne più di quanta ne ebbe.
Dante Magnini
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